In caso di licenziamento e di successiva riassunzione in servizio, a seguito di conciliazione stragiudiziale, la rinuncia alle retribuzioni relative al periodo in contestazione può spiegarsi solo con la continuità del rapporto e con la persistenza dell’obbligo contributivo.
Il lavoratore può dunque per tale periodo rinunciare alle retribuzioni, ma non anche alle contribuzioni previdenziali, che rientrano nel novero dei diritti indisponibili.
—
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro
Sentenza 8 giugno 2001 n. 7800/2001
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il lavoratore G. B. è stato licenziato dalla società xxx il 15 settembre 1993 e reintegrato nel posto di lavoro, per effetto di conciliazione sindacale, in data 10 aprile 1994.
Si discute in causa sull’obbligo della società datrice di lavoro di corrispondere i contributi previdenziali per il periodo di sette mesi durante il quale lo stesso B. non ha prestato attività lavorativa, considerato anche che il lavoratore, in sede di conciliazione, ha dichiarato espressamente di rinunciare alle retribuzioni dei sette mesi non lavorati.
Con sentenza dell’11 febbraio, 1° aprile 1999, il Tribunale di Bari ha accolto l’appello proposto dal B. avverso la decisione del locale Pretore, riconoscendo l’obbligo della società di provvedere a tale pagamento.
I giudici di appello hanno osservato che nel verbale di conciliazione le parti avevano ribadito che il B. era reintegrato nel posto di lavoro, pur rinunciando alle retribuzioni maturate dal licenziamento all’effettiva reintegrazione.
Le espressioni usate, sottolinea il Tribunale, revoca del licenziamento reintegra nel posto di lavoro deponevano tutte nel senso di un ripristino del rapporto con effetti ex tunc.
Non avrebbero avuto alcun senso, altrimenti, le rinunce alla retribuzione da parte del B. (che non aveva neppure provveduto a restituire il trattamento di fine rapporto percepito all’atto della risoluzione del rapporto, trattenendolo come acconto sulla futura liquidazione: cfr. conciliazione 10 gennaio 1994).
Il Tribunale richiamava la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il rapporto di lavoro non viene affatto interrotto dal licenziamento dichiarato illegittimo (in virtù del principio della stabilità reale).
Conseguentemente riprende vita, senza soluzione di continuità, anche il rapporto previdenziale ed assicurativo (e gli obblighi a carico del datore di lavoro persistono anche nel periodo di interruzione dell’attività lavorativa tra licenziamento e reintegra).
Tra l’altro, sottolineano i giudici di appello, neppure l’eventuale rinuncia del lavoratore ai danni subiti, per effetto del licenziamento, avrebbe potuto ricomprendere l’omesso versamento dei contributi, data la natura indisponibile dei diritti di natura previdenziale (almeno nell’ambito dei contributi non prescritti).
Dalla affermata dichiarazione di unitarietà del rapporto e dell’obbligo di versamento dei contributi per il periodo di forzata inattività, concludeva il Tribunale, discendeva anche la maturazione dell’anzianità di servizio necessaria ai fini del diritto al pagamento dell’indennità di mobilità (capo di domanda, questo, diretto all’INPS).
Avverso tale decisione ricorre la società con un motivo unico.
Resistono con controricorso il B. e l’INPS, che propone a sua volta ricorso incidentale, sorretto da due motivi, cui resiste il B. con controricorso, deducendo la carenza di interesse dell’INPS a spiegare ricorso incidentale in ordine al pagamento dell’indennità di mobilità e l’infondatezza del motivo riguardante le spese del giudizio di secondo grado.
La società xxx ed il B. hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Devono innanzitutto essere riuniti i due ricorsi, in quanto proposti entrambi contro la medesima decisione (art. 335 cod. proc. civ.).
Con l’unico motivo del ricorso principale, la società a responsabilità limitata xxx denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della L. 20 maggio 1970 n. 300, dell’art. 37 del R.D.L. 4 ottobre 1935 n. 1827, dell’art. 23, quarto comma, della L. 4 aprile 1952 n. 218 [1], e dei principi vigenti in materia di previdenza e assistenza sociale, nonché degli artt. 2113, 1965 e 1362 e seguenti del codice civile; omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia.
Con il verbale di accordo del 10 aprile 2001, siglato dinanzi all’UPLMO di Bari, la società xxx aveva revocato la procedura di riduzione del personale, accettando di sottoscrivere un contratto di solidarietà c.d. difensivo per la durata di mesi sei, che riguardava tutto l’organico, composto allora da trentuno dipendenti.
Nella medesima circostanza, era stata conciliata anche la controversia individuale di impugnativa di licenziamento proposta dal B. .
In forza del verbale di conciliazione sottoscritto ex artt. 410 e 411 cod. proc. civ., la società aveva revocato il licenziamento del B., impegnandosi a reintegrarlo nel posto di lavoro con decorrenza dal giorno successivo a quello del rilascio del decreto di nomina del lavoratore a guardia giurata e della relativa licenza di porto d’armi.
Per quanto riguardava il periodo in cui egli non aveva prestato attività lavorativa, dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, il lavoratore aveva rinunciato a qualsiasi emolumento, a titolo di retribuzione o di danni.
In conseguenza di ciò, osserva la ricorrente, doveva escludersi qualsiasi obbligo di pagamento dei contributi previdenziali per tale periodo (sia perché il lavoratore vi aveva espressamente rinunciato, sia perché mancava una espressa pronuncia giudiziale sulla impugnativa del licenziamento).
Al di fuori della ipotesi speciale, regolata dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, osserva conclusivamente la società xxx, non è prevista nel nostro ordinamento una tutela previdenziale collegata alla titolarità di uno status giuridico o sociale, non accompagnata dal contestuale, effettivo svolgimento di una specifica attività da part del soggetto protetto: l’iscrizione al regime assicurativo generale dei lavoratori subordinati presuppone, infatti, sempre e comunque l’esercizio effettivo di un’attività lavorativa alle dipendenze di terzi.
Avendo il lavoratore espressamente rinunciato alle retribuzioni relative al periodo di sospensione dal lavoro, doveva escludersi qualsiasi obbligo contributivo a carico dell’azienda dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegrazione.
La ricorrente ricorda, tra l’altro, il divieto di costituzione di posizioni assicurative fittizie, penalmente sanzionato dall’art. 28, quarto comma, della L. 4 aprile 1952 n. 218.
Il ricorso principale è fondato.
Con ampia motivazione, i giudici di appello hanno dato la loro interpretazione della conciliazione sindacale di cui al verbale di accordo 10 gennaio 1994 ed hanno concluso che la stessa conteneva solo una rinuncia del B. alle retribuzioni e non anche al versamento dei contributi previdenziali (tra l’altro oggetto di un diritto irrinunciabile del lavoratore).
Con argomentazioni insindacabili in questa sede di legittimità, in quanto esenti da qualsiasi vizio logico o giuridico, i giudici di appello hanno osservato che tutte le espressioni utilizzate dalle parti, in sede di conciliazione, deponevano concordemente per la continuità del rapporto di lavoro.
Secondo la ricorrente, del resto, un obbligo contributivo potrebbe sussistere solo ove vi fosse stata una pronuncia del giudice in ordine alla illegittimità del licenziamento, con la conseguente applicazione della norma contenuta nell’art. 18 della L. n. 300 del 1970.
Tale assunto non è, tuttavia, condivisibile.
La revoca del licenziamento e la reintegrazione del B. nel precedente posto di lavoro hanno eliminato il licenziamento con effetti ex tunc.
La rinuncia alle retribuzioni relative al periodo in contestazione, come esattamente ha posto in luce la difesa del B., può spiegarsi solo con la continuità del rapporto e con la persistenza dell’obbligo contributivo.
Ovviamente, il lavoratore può rinunciare alle retribuzioni, ma non anche alle contribuzioni previdenziali, che rientrano nel novero dei diritti indisponibili.
La lettura delle motivazione contenute nella sentenza impugnata pone in evidenza la infondatezza della lamentata violazione dell’art. 1362 cod.civ..
Il Tribunale, infatti, nella ricerca della comune volontà delle parti, ha fatto innanzitutto ricorso al primo strumento di ermeneutica: quello costituito dall’esame delle parole ed espressioni contenute nel contratto.
Dal rigetto del ricorso principale, discende necessariamente anche il rigetto del primo motivo del ricorso incidentale, con il quale l’INPS denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 16 della L. n. 223 del 1991, nonché vizio di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc.civ.).
Del resto lo stesso Istituto, nel ricorso incidentale, sottolinea che qualora si dovesse addivenire al disconoscimento del menzionato periodo lavorativo, in forza di una diversa interpretazione del verbale di conciliazione, si dovrà necessariamente cassare presente capo di sentenza, vertente sul riconoscimento in capo al lavoratore del diritto all’indennità di mobilità e sulla condanna dell’ente previdenziale al pagamento della medesima.
Infondato appare anche il secondo motivo del ricorso incidentale, con il quale l’INPS denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione (art.360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.), sottolineando che l’Istituto non poteva riconoscere il beneficio dell’indennità di mobilità al lavoratore, in mancanza del requisito di anzianità aziendale di cui al primo comma dell’art. 16 della L. n. 223 del 1991.
Pertanto, finchè la società non avesse provveduto a ricostituire la menzionata anzianità aziendale, provvedendo anche al pagamento dei contributi dovuti, l’INPS non avrebbe potuto erogare alcunchè, pena l’emanazione di un provvedimento illegittimo in quanto assunto in violazione di norme di legge.
Del tutto ingiustificata, pertanto, sarebbe, sempre secondo l’INPS, la sua condanna al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio, pronunciata dai giudici di appello.
L’Istituto osserva che dalla sentenza impugnata, non era dato comprendere per quale motivo l’Istituto previdenziale fosse stato condannato al pagamento delle spese di giudizio che non aveva assolutamente provocato, ma nel quale era stato coinvolto suo malgrado.
Osserva il Collegio: in ossequio al principio della soccombenza, il Tribunale di Bari ha condannato l’INPS al pagamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio.
Le censure formulate dall’Istituto non tengono conto da un lato, del comportamento processuale concretamente tenuto dall’INPS nel corso di tutto il processo e si riferiscono, dall’altro, a principi propri della assicurazione privata, anziché di quella obbligatoria (nella quale il pagamento delle prestazioni a favore del lavoratore può anche prescindere dal pagamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro, in presenza di tutti gli altri presupposti di fatto e di diritto richiesti per la prestazione stessa).
Seguendo la tesi proposta dall’Istituto, il lavoratore non avrebbe mai diritto a ricevere le prestazioni di legge in tutti i casi nei quali, per qualsiasi ragione, il datore di lavoro non avesse provveduto al pagamento dei contributi obbligatori.
La posizione dell’Istituto non è stata affatto passiva nel corso del giudizio, avendo, all’opposto, l’Istituto svolto una strenua difesa, ed eccepito sin dal primo atto la mancanza in capo al lavoratore del requisito di anzianità di servizio previsto dal primo comma dell’art. 16 della L. n. 223 del 1991 ed il mancato versamento dei contributi posti a carico del datore di lavoro dal secondo comma dello steso articolo.
Conclusivamente, i ricorsi riuniti devono essere rigettati, con la compensazione delle spese di questo giudizio di legittimità (sussistendone i giusti motivi).
PQM
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta,
compensa le spese di questo giudizio.
Roma, 10 aprile 2001.
Depositata in Cancelleria l’8 giugno 2001.