Associazione Nazionale Magistrati – XXVI Congresso Nazionale
Relazione introduttiva del Presidente dell’ANM
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Signor Presidente, Autorità, Signore e Signori, Colleghi,
prima di svolgere la relazione introduttiva dei lavori del XXVI Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati, permettetemi di rivolgere al Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, anche a nome di voi tutti, il mio deferente saluto, unitamente al mio più caldo ringraziamento per avere voluto farci dono della sua presenza.
Ringrazio ancora il Vice-Presidente del Senato, Calderoli, il Presidente della Camera dei Deputati Casini, il Presidente della Corte Costituzionale Ruperto, il Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, Marvulli, il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Favara, il vice-Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Verde, e tutte le autorità tutte qui convenute
Nei luoghi affollati della memoria affiora il ricordo dei colleghi che ci hanno recentemente lasciato. Ad essi va il nostro commosso saluto. Consentitemi tuttavia di ricordare con particolare affetto Adolfo Beria d’Argentine, Carlo Maria Verardi e Salvatore Buffoni. La testimonianza del loro impegno professionale, della loro passione civile rischiara il nostro cammino e rende più lieve il peso delle difficoltà che il presente ci riserva.
Ho ringraziato il Capo dello Stato non soltanto per essere oggi qui con noi, ma altresì per avere voluto ricordare, anche in recenti occasioni che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura “costituiscono valori intangibili, consacrati come tali nella nostra Carta Costituzionale che vuole i giudici soggetti soltanto alla legge” ed ancora che “la giustizia è il valore fondante di ogni società”.
L’art. 111 della Costituzione novellato ha sancito, com’è noto il diritto al giusto processo, vale a dire il diritto ad un processo regolato dalla legge, che si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale, entro un tempo ragionevole.
Il tema del XXVI Congresso dell’ANM – “tempi e qualità della giustizia” si iscrive interamente in questa riforma.
L’introduzione nel nostro ordinamento dei principi del giusto processo, avvenuta – come si ricorderà – con voto pressoché unanime del Parlamento, è stata inizialmente accompagnata da una lettura in qualche modo riduttiva della portata innovativa della riforma costituzionale.
Si osservava, infatti, come già fin dalla metà degli anni novanta la Corte Costituzionale avesse iniziato ad enucleare, con riferimento al processo penale, i fondamenti essenziali del c.d. “processo giusto”, secondo una formula definitoria mutuata dai sistemi di “common law”, cosicché una attenta opera di esegesi consentiva di rinvenire nella giurisprudenza costituzionale una buona parte dei principi assunti a contenuto dell’art. 111 novellato.
Sotto altro profilo, l’attenzione degli operatori del diritto, magistrati e avvocati innanzitutto, si era concentrata quasi interamente sulle novità riguardanti il processo penale, in particolare sulla portata innovativa del canone che ha sancito l’introduzione nel processo penale del principio del contraddittorio nella formazione della prova. E la ragione di tanto interesse era abbastanza comprensibile.
La legge costituzionale n. 2 del 1999 aveva concluso, infatti, una tormentata stagione di pronunce della Corte Costituzionale e di interventi legislativi concernenti la portata dell’art. 513 c.p.p e di alcune norme circostanti.. Una stagione iniziata con le sentenze n. 254 del giugno 1992 e n. 60 del febbraio.1995, che avevano dichiarato parzialmente incostituzionali gli artt. 513 e 210 c.p.p., proseguita con l’emanazione della legge 7 Agosto 1997 n. 267, che aveva ripristinato la portata originaria dell’art. 513 c.p.p., e finalmente culminata nella sentenza n. 361 del 1998 che aveva nuovamente dichiarato la parziale illegittimità costituzionale non soltanto dell’art 513, ma anche degli art. 210 e 238 c.p.p..
Le cronache del tempo riferiscono che il disegno di legge (primo firmatario il sen. Pera) successivamente divenuto legge costituzionale, era stato presentato a distanza di appena due giorni dalla pubblicazione della motivazione della sentenza n. 361, avvenuta il 2 Novembre 1998.
E forse non sono molto lontani dal vero quanti affermano che una delle ragioni della riforma in discorso sia stata proprio quella di impedire alla Corte Costituzionale l’utilizzazione del principio giurisprudenziale di “non dispersione dei mezzi di prova” che la Corte medesima aveva enucleato con una interpretazione ritenuta fortemente additiva. Si rimproverava, in buona sostanza, al “giudice delle leggi” di voler porre nel nulla la volontà del Parlamento tesa a ripristinare i caratteri fondamentali dell’originario impianto codicistico. E non c’era convegno, dibattito, tavola rotonda o quadrata che fosse da cui non partissero all’indirizzo della Corte critiche che, per i toni e i contenuti espressi ritenevamo e tuttora riteniamo del tutto inaccettabili.
C’è voluto qualche tempo perché fosse compreso appieno che era tutta la giurisdizione a dover essere rivisitata alla stregua del principio del “giusto processo regolato dalla legge”. E così, lentamente ma inesorabilmente, è venuta in evidenza l’importanza del principio che sancisce il diritto alla ragionevole durata del processo; un principio che esprime – com’è stato recentemente osservato – “l’esigenza di individuare un equilibrio nel quale siano contemperate armoniosamente, per un verso, l’istanza di una giustizia amministrata senza ritardi, e, per l’altro verso, l’istanza di una giustizia non frettolosa e sommaria”.
Oggi, come tutti sappiamo, i processi hanno durata tutt’altro che ragionevole.
E quel che è più grave è la constatazione che il sistema italiano non è assolutamente in grado di assicurare il rispetto del limite massimo complessivo – che è di sei anni – fissato dalla Corte europea perché la durata del processo possa ritenersi ragionevole.
Da qui le condanne inflitte al nostro Paese per violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione sui diritti dell’uomo, condanne tanto numerose da autorizzare la Corte di Strasburgo a ravvisare nei tempi lunghi della giustizia italiana, una “pratica incompatibile con la convenzione” e ad ipotizzare per il nostro Paese la sanzione della sospensione del diritto di voto.
L’introduzione di un rimedio interno, che drenasse le istanze riparatorie dei cittadini italiani che, sempre più numerosi, adivano la Corte di Strasburgo, era dunque operazione in larga misura necessitata, ma è altrettanto sicuro che si è perduta una preziosa occasione per intervenire con misure strutturali capaci di incidere efficacemente sui tempi dei processi.
La legge 24 Marzo 2001 n. 89, ormai nota come “legge-Pinto”, che riconosce il diritto all’equa riparazione del danno, patrimoniale e non, per mancato rispetto della durata ragionevole del processo, ha spostato all’interno del nostro ordinamento i termini di un problema che tuttavia rimane sostanzialmente insoluto e rischia addirittura di produrre una ulteriore proliferazione delle controversie e dunque un ulteriore allungamento della durata dei processi.
L’ANM durante l’esame del disegno di legge alla Camera dei Deputati aveva avanzato richiesta di audizione. La risposta era stata che il Parlamento non avrebbe fatto in tempo ad approvare quel disegno di legge perché la legislatura volgeva ormai al termine.
Le cose, come si sa, sono andate diversamente.
Il Parlamento, dopo un frenetico andirivieni Camera-Senato, ha, infatti, varato la legge qualche minuto prima dello scioglimento delle Camere. Se fossimo stati sentiti, avremmo detto che ai magistrati non piaceva – e ancora oggi continua a non piacere – la previsione dell’art. 3, in forza della quale il decreto che accoglie la domanda di equa riparazione va comunicato al Procuratore generale della Corte dei Conti per l’eventuale promovimento del procedimento per responsabilità contabile, nonché ai titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento.
Grazie a questi automatismi, frutto di scelte prive di serio fondamento giuridico e latamente punitive per la magistratura, la responsabilità dello Stato, per il mancato apprestamento delle risorse necessarie ad assicurare l’attuazione del fondamentale diritto del cittadino al “processo dovuto”, si è tramutata in una responsabilità personale e diretta (seppur eventuale) del singolo magistrato, ciò che concreta, sul piano dei principi, una distorsione francamente inaccettabile. L’art. 111 Cost., infatti, dispone che la “legge assicura la ragionevole durata del processo”, non assicura invece il risarcimento per la irragionevole durata e tanto meno individua come responsabile il singolo magistrato.
Occorre rimediare con un urgente intervento di ortopedia correttiva, anche al fine di impedire che da qui a qualche anno, possa gravare su giudici e pubblici ministeri un fardello di procedimenti disciplinari e contabili del quale non sarà agevole liberarsi in tempi ragionevoli, dal momento che l’azione di responsabilità dà luogo ad un procedimento che impone di verficare le cause della durata irragionevole, e non può comunque prescindere dall’accertamento del presupposto soggettivo del dolo o della colpa grave. Un fardello che, indipendentemente dall’esito finale dei singoli procedimenti, finirà inevitabilmente per determinare ripercussioni negative anche sulle legittime aspettative di carriera dei magistrati nei confronti dei quali le azioni di responsabilità, contabile e disciplinare, risultino essere state attivate.
Un ordinamento moderno è tale non soltanto per i principi giuridici in esso proclamati ma anche per la quantità e qualità delle risorse che lo supportano.
La definizione del processo in tempi ragionevoli impone innanzitutto un congruo incremento degli stanziamenti per far fronte all’accresciuto fabbisogno di risorse materiali e umane e richiede inoltre un insieme di interventi in grado di modificare l’organizzazione degli uffici giudiziari, a partire dalla costituzione dell’ufficio del giudice – vale a dire di un ufficio di diretto ausilio alla sua attività.
In assenza di adeguati interventi strutturali, è arduo immaginare che si possa ottenere una apprezzabile riduzione dei tempi dei processi attraverso la pur auspicabile instaurazione di prassi virtuose.
E’ altresì vero che la novella costituzionale dell’art. 111 impone al giudice di scegliere, tra le possibili opzioni che attengono alla direzione del processo, la soluzione maggiormente conforme al principio della ragionevole durata. Occorre però dire con grande franchezza che questa prospettiva non autorizza alcun ottimismo, poiché non appare di per se sola idonea a rimuovere le distorsioni del sistema.
Ed è questa la ragione per cui ai magistrati non sono piaciute – al di là del loro pregio intrinseco – le due risoluzioni del CSM con le quali i dirigenti degli uffici giudiziari ed i singoli magistrati sono stati invitati ad adottare le misure necessarie a ridurre la durata dei processi. In alcuni distretti è accaduto, infatti, che i capi di corte – appena ricevuta la risoluzione consiliare – hanno girato l’invito ai Presidenti dei Tribunali, i quali, a loro volta, hanno chiamato in causa i Presidenti di sezione e questi ultimi non hanno saputo o potuto fare di meglio che affidare ai giudici delle sezioni la responsabilità di tradurre in comportamenti concreti le raccomandazioni del CSM.
Si dice ormai da gran tempo che la giustizia civile è il grande malato, ma i dottori che si alternano al suo capezzale non sono d’accordo sulla terapia.
Oggi una seria riflessione sulle riforme necessarie per garantire la ragionevole durata dei processi civili impone di considerare che la proliferazione dei centri di produzione del diritto e le dinamiche sociali sempre più complesse hanno innescato un processo di “giuridificazione” di interessi un tempo estranei alla sfera del diritto, con conseguente sovraccarico dell’apparato giudiziario chiamato ad assicurarne la tutela.
Questo processo di giuridificazione ha reso “giustiziabili”, come si dice oggi con un brutto ma efficace neologismo, nuovi interessi, e determinato la crisi del sistema per la evidente sproporzione tra ciò che si chiede al giudice e ciò che dal giudice si ottiene. La crisi del sistema civile è, dunque, essenzialmente crisi di efficienza.
In tale prospettiva, è necessario prevedere, innanzitutto, l’adozione di strumenti che consentano, da un lato, una migliore utilizzazione delle risorse disponibili e, dall’altro, la introduzione di meccanismi in grado di rendere il processo civile più rapido e snello.
Per quanto concerne la razionalizzazione delle risorse disponibili, occorre porre mano senza ulteriore indugio a quella che è stata, a ragione, ritenuta “la madre di tutte le riforme”, vale a dire la modifica delle circoscrizioni giudiziarie, procedendo agli accorpamenti degli uffici con dotazione organica inferiore a quella minima necessaria per il loro corretto funzionamento, e sopprimendo gli uffici giudiziari inutili.
E’ altresì necessario, in tale contesto, avviare una ricognizione puntuale degli uffici cui destinare le nuove risorse derivanti dall’ampliamento dell’organico della magistratura previsto dalla legge n. 48/ 2001, così da consentire che la distribuzione dei nuovi posti avvenga sulla base di reali esigenze di funzionalità.
Ma la previsione costituzionale di una giustizia efficiente, resa in tempi ragionevoli esige anche un processo più agile e veloce e interventi normativi in grado di offrire strumenti alternativi alla giurisdizione, vale a dire strumenti di mediazione e di conciliazione che abbiano caratteristiche tali da garantire innanzitutto l’imparzialità e la professionalità dei soggetti preposti, quindi la fruizione di strutture adeguate ed infine la garanzia dell’accesso per i ceti non abbienti.
Occorre inoltre avviare una riflessione intorno al modello di magistrato onorario delineato dalla Costituzione e al ruolo che la magistratura onoraria sarà chiamata a svolgere nel prossimo futuro.
Al riguardo sono in larga misura da condividere le istanze dell’avvocatura di ridefinizione del ruolo della magistratura onoraria, dei principi che ne disciplinano il reclutamento e la formazione professionale e del sistema di governo. E’ necessario al riguardo individuare i contenuti essenziali di un percorso riformatore in grado di offrire soluzioni largamente condivise.
Sul piano della disciplina del processo civile, sono stati messi in cantiere numerosi interventi, il più significativo dei quali è quello della c.d. “privatizzazione”.
Ridotta nei suoi termini essenziali, essa consiste nell’affidare il processo alle parti e ai loro difensori, mentre il giudice interverrebbe soltanto per risolvere questioni procedimentali controverse, ovvero per decidere la controversia nel merito. Si otterrebbe l’effetto di restituire il giudice al compito suo proprio, che è quello di decidere, e di accelerare per tal modo i tempi della decisione.
Ora, l’ANM ritiene che la c.d. “privatizzazione” del processo civile sia rimedio di per sé non decisivo.
Indipendentemente dai dubbi di costituzionalità che l’attuale formulazione dell’art. 111 Cost. riverbera sulla previsione di affidare alle parti private la gestione di una porzione consistente del processo, merita qui di essere rimarcato l’ondivago procedere del legislatore che, dopo avere introdotto la regola in forza della quale la prova si forma in dibattimento e che il processo si svolge avanti ad un giudice terzo ed imparziale, propone poi di costruire un processo civile ispirato ad una regola opposta, dalla quale si ricava che la presenza del giudice nella fase della formazione della prova costituisce, per dirla con una felice espressione del prof. Verde, “un inutile e costoso ingombro”.
Inoltre la progettata riforma finirebbe per trasferire i maggiori costi del processo sulle parti private, così ulteriormente pregiudicando le prospettive di accesso dei soggetti meno abbienti.
La “modernità” della riforma proposta sta, in ultima analisi, nel ritorno al modello processuale del codice del 1865, che affidava alle parti il potere di scandire i tempi del processo, un modello che venne abbandonato proprio a causa dei costi e delle lentezze che determinava.
D’altra parte è noto che anche negli ordinamenti stranieri fondati sul sistema “adversary”, il potere delle parti di scandire i tempi e i modi del processo ha prodotto una straordinaria dilatazione dei tempi di definizione e costi processuali elevatissimi, tanto da rendere necessaria l’adozione di strumenti idonei ad attribuire al giudice nuovi e più incisivi poteri di direzione del processo, come dimostra la riforma introdotta in Inghilterra nel 1999 con il Civil Procedure Rules e negli Stati Uniti con la introduzione del “case management”.
In ogni caso ritiene l’ANM che la c.d. “privatizzazione” del processo civile non possa tradursi in una attenuazione dei poteri di impulso, di controllo e decisione del giudice, al quale deve continuare ad essere intestato il potere di ammissione e valutazione della prova.
Anche il processo penale è ben lontano dal garantire il rispetto del principio di ragionevole durata, a causa di un insieme di interventi normativi che hanno interessato singoli istituti e parti limitate del procedimento (basti pensare alla c.d. legge Carotti e alla legge sulle indagini difensive) che hanno modificato l’intima coerenza dell’originario modello processuale.
Oggi quel modello processuale non c’è più. Coesistono, infatti, accanto ad istituti propri dell’originario impianto accusatorio, istituti e garanzie che rispondono ad un modello processuale di tipo inquisitorio. Il risultato è la creazione di un modello ibrido, perciò irriconoscibile, caratterizzato da farraginosità e lentezze esasperanti che si riverberano sui tempi necessari per l’accertamento della verità, che è e deve restare la funzione tipica del processo penale.
Ha giustamente osservato il Procuratore generale Favara che processo giusto è quello che riesce ad evitare la condanna dell’innocente, ma riesce ad evitare anche un altro errore: l’assoluzione del colpevole. Così come, per continuare nella citazione, è giusto il processo che conduca in tempi brevi ad un accertamento veridico del fatto.ed ingiusto, perché inefficiente, il processo che perviene ad una sentenza giusta, ma a distanza di tempo intollerabile.
L’ANM rivendica a sé il merito di avere svolto in questi anni, con continuità e rigore, una intensa attività di interlocuzione con le forze politiche, per sollecitare l’adozione di scelte normative che consentissero la piena attuazione dei principi del giusto processo.
Durante la lunga e complicata fase di gestazione della legge n. 63/2001, l’ANM ha in più occasioni sottolineato la necessità che il dibattimento non fosse il “luogo del silenzio”, bensì il “luogo della parola”, ed evidenziato come l’effettività del principio del contraddittorio nella formazione della prova imponesse una marcata riduzione dell’area del diritto al silenzio.
Nei numerosi documenti approvati in quei mesi, è stata evidenziata la necessità di prevedere espressamente che coloro i quali nel corso delle indagini preliminari avevano reso dichiarazioni accusatorie “inter alios”, provocando, talora, l’incriminazione di decine e decine di soggetti per fatti di criminalità organizzata di stampo mafioso, non potevano nel dibattimento avvalersi della facoltà di non rispondere, e che una volta operata la scelta di accusare altri soggetti, avevano l’obbligo di dire la verità, nell’interesse precipuo della giustizia.
Si trattava di principi che completavano in modo coerente e consequenziale la costituzionalizzazione della regola che prevede l’assoluta inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari da chi successivamente si sottrae al contraddittorio con l’imputato e il suo difensore.
L’ANM ha espresso apprezzamento per il tentativo del legislatore di garantire la genuinità del contributo probatorio del “testimone assistito”, ma al contempo ha manifestato perplessità per i prevedibili effetti negativi che sarebbero scaturiti dall’applicazione di questa disciplina ai procedimenti per reati di criminalità organizzata; a motivo del fatto che vengono rimesse in gioco anche le dichiarazioni assunte con le garanzie del “contraddittorio anticipato”, (in quanto la rinnovazione dell’esame è subordinata alla sola condizione che le parti ne ravvisino la necessità, sulla base di “specifiche esigenze” non meglio precisate).
Ed è del tutto evidente come questo meccanismo sia di per sé idoneo a determinare una ulteriore dilatazione dei tempi della decisione, in contrasto con il principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo.
Abbiamo svolto considerazioni non certo peregrine sulla norma dell’art. 500 c.p.p. che prevede la reintroduzione di una regola probatoria di esclusione della prova, in forza della quale le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni servono per il controllo di credibilità della testimonianza orale, ma non possono valere come prova dei fatti in esse affermati. Una questione cruciale che torna oggi di grande attualità per l’atteso responso della Corte Costituzionale e sulla quale sembra qui doveroso astenersi da ogni ulteriore commento.
Su questi temi l’ANM si è confrontata – per la verità senza molta fortuna – con tutte le forze politiche presenti in Parlamento, ma esprimere perplessità o sollevare dubbi argomentati su taluni aspetti di una legge non vuol dire essere contrari a tutto né, ancor meno, alla parte politica da cui l’iniziativa promana.
E proprio perché mossa da intenti costruttivi l”ANM ha evidenziato che la legge sui collaboratori di giustizia conteneva talune disposizioni particolarmente restrittive, tali da rendere prevedibile il prosciugamento del fenomeno (ciò che puntualmente è accaduto), e con riferimento alla legge sulle investigazioni difensive, ha rassegnato in più occasioni al Ministro della Giustizia del tempo, on. Fassino, le perplessità scaturenti dalla natura e dall’ampiezza dei poteri di indagine riconosciuti al difensore anche prima della iscrizione di una notizia di reato (le c.d. “investigazioni preventive”), e e persino i dubbi di costituzionalità della disposizione contenuta nell’art. 391 c.p.p. che consente al difensore dell’indagato di richiedere l’incidente probatorio anche fuori dalle ipotesi previste dall’art. 392 e nega invece la stessa facoltà al pubblico ministero.
Del resto la nostra apertura al confronto dialogico è testimoniata dai rapporti intessuti con l’avvocatura in tutte le sue articolazioni associative e rappresentative. Sono stati organizzati, su temi di grande rilievo, numerosi incontri ed assunte importanti iniziative congiunte, altre sono state programmate per i prossimi mesi, mentre continuiamo a coltivare la speranza di giungere alla formulazione di un nuovo catalogo di regole deontologiche applicabile al difensore e al pubblico ministero, scaturente dal contributo dell’avvocatura e della magistratura.
Questo non significa che magistrati e avvocati abbiano superato ogni ragione di contrasto.
Sul versante del processo penale, rimane insanabile la diversità di vedute sul tema della separazione delle carriere, che l’avvocatura penale continua a ritenere obiettivo irrinunciabile di una rivendicazione che mirerebbe ad assicurare il pieno rispetto dei principi costituzionali del giusto processo ed trarrebbe, dunque, nuovo alimento dalla disposizione dell’art.111 Cost. Novellato.
Si tratta – com’è ormai noto – di una riforma invisa alla quasi totalità della magistratura, ma, quel che più conta, fondata su argomentazioni neppure condivise dalla dottrina processualpenalistica che guarda al principio della “parità delle armi” come ad una questione che non dipende dalle soluzioni ordinamentali riguardanti la carriera dei magistrati, bensì come ad una questione che dipende dalla natura e dalla dislocazione dei poteri attribuiti a ciascuna delle parti all’interno del processo.
E’ comunque certo che la separazione delle carriere non arrecherebbe alcun contributo all’efficienza del sistema giudiziario, neppure sotto il profilo della ragionevole durata. E, per converso, il pericolo dell’appiattimento del giudice sulle posizioni del p.m. (altro leit-motiv che si richiama per giustificare la separazione delle carriere) è stato sempre assunto come una verità che però, dati alla mano, rimane invece ancora tutta da dimostrare.
Noi riteniamo, e non da oggi, che l’esercizio della funzione giudicante concorra ad una più completa formazione professionale, e che la possibilità del passaggio dall’una all’altra funzione dia al p.m. la possibilità di partecipare ad una comune cultura della giurisdizione che impedisce che egli si trasformi in una sorta di super-poliziotto, in un accusatore per mestiere, cui debbano rimanere estranee la ricerca della verità come fine ultimo del processo e la cultura della prova. Per questo siamo favorevoli ad un intervento riformatore che realizzi una più accentuata distinzione della funzione giudicante da quella requirente, conservando la unitarietà della magistratura, l’unicità del concorso, la formazione iniziale comune, ed una disciplina che consenta il passaggio da una funzione all’altra senza creare steccati di fatto insormontabili.
Anche nel processo penale, dunque,così come nel processo civile, il tema di fondo è come conciliare garanzie ed efficienza,, assicurando effettività al principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo.
Se questo è il tema di fondo, occorre prendere atto che nel processo penale vi sono oggi regole che non accrescono in alcun modo la sfera dei diritti di difesa dell’imputato e si traducono, in definitiva, in un dannoso appesantimento del processo, trasformato in una gara ad ostacoli in cui la vittoria arride al più bravo, anche a scapito della verità.
Naturalmente non si intende qui sostenere che se si vuole che il processo abbia una durata ragionevole occorre intervenire riducendo le garanzie di difesa, ma più semplicemente evidenziare la necessità di un serio intervento di potatura che, per usare un’espressione di Franco Cordero, recida i “mille garantismi” che oggi appesantiscono il processo penale e ne alterano i tempi di definizione.
D’altra parte, e’ sufficiente un esame della giurisprudenza della Corte Europea sul tema del giusto processo per comprendere quale sia il contenuto minimo delle garanzie che rendono “giusto” il processo e come i giudici di Strasburgo siano spesso portati a privilegiare il valore della speditezza del processo, rispetto a quello delle garanzie. Se ci si colloca in quest’ottica si comprende appieno il paradosso italiano siamo il Paese che ha subito più condanne per l’eccessiva durata dei processi, ma siamo anche il Paese che offre il più esteso sistema di garanzie, in più occasioni definito dalla stessa Corte di Strasburgo come “sovrabbondante”.
Forse è il caso di ricordare che la Corte Europea ritiene compatibile con i principi del giusto processo dettati dall’art. 6 della Convenzione sui diritti fondamentali dell’uomo il processo nel quale la condanna dell’imputato sia fondata sulla testimonianza “anonima”, cioè protetta, dell’unico teste d’accusa, qualora essa sia stata resa avanti ad un giudice terzo e imparziale, il quale conosca la identità del teste protetto, e sempre che all’imputato sia garantita almeno una occasione “adeguata e sufficiente” per contestare le dichiarazioni accusatorie del teste protetto.
A quanti oggi appaiono affetti da un insuperabile strabismo culturale che pretende di ottenere la speditezza dei processi conservando, financo nel processo avanti al giudice di pace, tutti i meccanismi farraginosi e le regole che governano l’attuale processo penale, è appena il caso di ricordare che la Corte di Strasburgo ritiene giusto il processo anche quando siano previsti due soli gradi di giudizio, uno di merito e uno di legittimità, e ritiene parimenti giusto il processo che sia espressione di un sistema nel quale – pure in presenza di un solo grado di giudizio per il merito – la sentenza sia immediatamente esecutiva.
Al tema della efficienza e della “qualità della giustizia appare correlato il dibattito sulla professionalità del magistrato. E’ questo uno dei versanti nei quali troppo spesso siamo chiamati a fare autocritica. Ed in effetti occorre riconoscere che dopo l’eliminazione della carriera – intesa come passaggio ad un grado superiore di giurisdizione dei magistrati risultati più bravi al termine di una apposita selezione professionale – e dopo la eliminazione del numero chiuso per il passaggio alle funzioni superiori, la verifica della professionalità consiste non già nel positivo accertamento della sussistenza dei requisiti previsti dalla legge, bensì nell’assenza di elementi negativi gravemente ostativi.
La strada da imboccare per correggere le insufficienze degli attuali modelli di valutazione non crediamo possa essere quella indicata nella recente bozza di riforma dell’ordinamento giudiziario predisposta dall’On. Gargani, vale a dire la reintroduzione del numero chiuso, nel senso che “le promozioni dei magistrati non possono eccedere il numero delle vacanze” e “il trattamento economico viene collegato alla valutazione ai fini della promozione”.
Noi restiamo fedeli ad una figura di magistrato “senza speranza ma senza timori” che continua a trovare nella garanzia della indipendenza e nel trattamento economico dignitoso l’incentivo a operare con dedizione e professionalità. E dal momento che il discorso cade acconcio, va qui ribadito che la misura della retribuzione è essa stessa misura della indipendenza del magistrato, sicché la pressante richiesta di eliminare le attuali, manifeste inadeguatezze dello status giuridico-economico della magistratura, si risolve nella richiesta di tutela della propria autonomia e indipendenza.
Dunque, a meno di non volere anche qui prospettare la necessità di una modifica del precetto di cui all’art. 107 Cost., bisogna convenire sulla impossibilità di tornare ad articolare la carriera del magistrato per “gradi”, così che l’unica via percorribile rimane quella della abolizione della carriera dal punto di vista economico. Una volta assicurata per tal modo l’indipendenza del giudice, occorre prevedere un rigoroso sistema di valutazioni che renda possibile il conferimento delle funzioni ai magistrati in possesso dei più elevati requisiti professionali e attitudinali.
Se ci siamo a lungo soffermati su queste tematiche, lo abbiamo fatto essenzialmente per due ragioni: la prima, per dimostrare che su ogni questione specifica l’ANM ha saputo offrire un apprezzabile contributo di riflessione e approfondimento; la seconda, per rimarcare che il tema della efficienza della giustizia, che racchiude in sé gran parte delle questioni appena trattate, costituisce il versante sul quale l’ANM ritiene necessario proseguire un confronto sereno e costruttivo con quanti intendono promuovere un reale miglioramento del servizio-giustizia per assicurare effettività ai diritti fondamentali dei cittadini riconosciuti dalla nostra Carta fondamentale.
Su questo versante, tuttavia, l’ANM non registra oggi iniziative legislative coerenti, né atteggiamenti improntati ad una reale volontà di dialogo, che significa innanzitutto rispetto per le opinioni altrui, ancorché divergenti dalle proprie.
Prima di spiegare le ragioni di questa affermazione, è opportuno fare una breve premessa.
Abbiamo ricevuto in questi ultimi mesi, in varie occasioni, l’invito ad “abbassare i toni”, con evidente riferimento a quello che è stato definito – a nostro avviso in maniera impropria – uno scontro istituzionale tra politica e magistratura.
Definizione impropria, perché nelle vicende di questi ultimi mesi la magistratura non ha mai scelto di scontrarsi con chicchessia, né ha mai assunto il ruolo dell’aggressore. La verità, la nostra verità, è che la magistratura è stata aggredita. Almeno questo occorre dirlo con grande franchezza.
Và qui ricordato che il Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, già nel discorso tenuto a Palazzo dei Marescialli il 26 maggio 1999, all’indomani della sua elezione, aveva affermato che l’ordine giudiziario era “mortificato dagli attacchi denigratori e delegittimanti troppo spesso rivolti alla magistratura…”.
Quello delle aggressioni alla magistratura, dunque, costituisce purtroppo un fenomeno non nuovo, che si è grandemente accentuato in questi ultimi tempi, e del quale non ci stancheremo di denunciare la gravità, perché questo – anche questo – è il compito della nostra associazione.
E se talora sono giunte dalla magistratura associata risposte giudicate sopra le righe, ciò è dipeso unicamente dalla necessità di respingere accuse di inusitata gravità, quale quella di avere fatto un uso politico della giustizia, provocato una guerra civile, un colpo di stato.
Né a attenuare la gravità di queste accuse poteva bastare l’affermazione, peraltro tardiva, che esse in realtà erano indirizzate ad una parte soltanto della magistratura, o addirittura ad alcuni magistrati soltanto, appartenenti ad uffici ben individuati. Si è trattato in definitiva di attacchi all’indipendenza e autonomia della magistratura ancor più gravi perché provenienti da soggetti investiti di responsabilità istituzionali, ciò che non può non destare grande preoccupazione in quanti credono, e vogliono ancora continuare a credere, nei principi dello stato di diritto.
Certo, oggi le condizioni di praticabilità del campo, per usare una espressione cara agli amanti del calcio, sembrano migliorate. E’ scesa in campo la dottrina (non tutta, per la verità…) e l’avvocatura (anche qui una parte soltanto…) con preoccupate argomentazioni tese a dimostrare la inconsistenza giuridica di certe accuse, ad invocare il rispetto del principio della separazione dei poteri e rivendicare alla magistratura il fondamentale – e niente affatto rivoluzionario – compito di interpretare le leggi che è essa è chiamata ad applicare. E poiché le invasioni di campo sono continuate e taluni mostravano di non avvedersene, si è levato alto il monito del Capo dello Stato per ribadire che “appartiene unicamente alla Magistratura la funzione giurisdizionale, che si esercita interpretando e applicando le leggi”.
Ed è forse il caso di ricordare che nel turbinio delle accuse cadute addosso a taluni giudici – ai quali credo si debba esprimere gratitudine per la compostezza e il riserbo fin qui mantenuti – c’era persino quella di volere disapplicare le sentenze della Corte di Cassazione e financo della Corte Costituzionale. Non c’era nulla di vero, ma le accuse erano proseguite proseguite fintanto che è giunta opportuna la riaffermazione del principio secondo cui anche le sentenze della Corte Costituzionale, al pari delle leggi, entrano a far parte dell’ordinamento giuridico vigente e, al pari delle leggi, sono soggette ad interpretazione.
E a dirlo è stato nientemeno che il Presidente della Corte Costituzionale, il quale ha spiegato che nel conflitto tra poteri dello Stato che vedeva contrapposte la Camera dei Deputati e l’autorità giudiziaria, “veniva in evidenza” cito testualmente ” il delicato bilanciamento dei valori, di pari rango costituzionale, dell’interesse alla speditezza del procedimento giudiziario e dell’interesse dell’Assemblea parlamentare allo svolgimento delle sue attività”, e che la Corte, con la nota sentenza n. 225 /2001, ha riconosciuto, e qui la citazione è ancora testuale, “il pari valore dell’interesse del Parlamento, ma non la sua assolutezza, come era nelle richieste della ricorrente, escludendo nel contempo – sono ancora le parole del Presidente della Corte – la configurabilità di possibili regole derogatorie del diritto comune”.
L’ANM in questi frangenti ha tentato di fare la parte che le competeva, con coerenza e senza fare sconti a nessuno.. Può darsi che le iniziative messe in campo siano servite allo scopo. Personalmente credo di sì, ma non faccio fatica a ritenere che altri possano pensarla diversamente. Del resto il Congresso è la sede ideale per dibattere su questi temi.
Credo però di non poter condividere l’opinione di quanti sostengono che le iniziative assunte abbiano finito per assegnare all’ANM un ruolo di opposizione politica che non le compete.
E non la condivido, questa opinione, non già perché ritenga giusto che l’ANM sia considerata o percepita come oppositore politico di questo o quel Governo, quanto perché è la politica del Governo che deve orientare le nostre valutazioni. E se sui temi della organizzazione della giustizia o dell’esercizio della giurisdizione essa non ci sembra condivisibile, abbiamo il dovere di dirlo per non venir meno alla ragione stessa del nostro esistere,e di dirlo con chiarezza..Del resto mai una volta siamo intervenuti su questioni estranee ai temi della giustizia.
Se poi per non apparire forza di opposizione, occorre prendere le distanze da certi magistrati ritenuti “politicizzati” e sconfessare pubblicamente il loro operato, come pure ci viene richiesto, pena la perdita di credibilità dell’associazionismo giudiziario, ci permettiamo di rispondere che la magistratura associata ha in sé la capacità di interrogarsi sul proprio passato non meno che sul proprio presente, sui propri meriti come sui propri errori e persino di riesaminare criticamente gli orientamenti culturali che hanno animato il confronto interno in un periodo storicamente datato, senza per questo dover impartire scomuniche, richiedere abiure o avviare sommari processi di epurazione che rispondono a concezioni culturali che non ci appartengono.
Quanto alla richiesta di abbassare i toni, occorre essere altrettanto espliciti.
Ritenere che quanto è accaduto in questi ultimi tempi sia riconducibile ad una mera questione di “bon-ton” istituzionale è, a nostro avviso, riduttivo e fuorviante.
Occorre prendere atto che oggi si offre alla nostra osservazione un panorama politico-istituzionale inedito, nel quale è possibile individuare la trama del definitivo passaggio da un sistema di democrazia proporzionalistica ad un sistema di democrazia maggioritaria, in cui la coalizione che conquista la maggioranza rivendica a sé, legittimamente, il compito – e la correlativa responsabilità – di governare, e la minoranza assume il compito di controllare l’operato della maggioranza.
Ciò che non appare, invece, compiutamente definito è il sistema di regole che disciplina i “diritti” della maggioranza di governo e quelli spettanti alla minoranza e consente di orientare l’azione di governo quando essa investe principi e valori fondanti della intera comunità nazionale.
Non si tratta evidentemente di prefigurare veti di alcun genere al legittimo e doveroso esplicarsi della potestà di governo, né di immaginare meccanismi in grado di condizionare i contenuti del processo riformatore, quanto piuttosto di verificare se sulle questioni di interesse generale sia configurabile per la maggioranza di governo una sorta di dovere, politicamente vincolante, di coltivare il metodo del dialogo e del confronto, e di tradurre, poi, in scelte politiche coerenti le acquisizioni da quel metodo scaturenti.
Il discorso riguarda assai da vicino la giustizia, in quanto i principi che sanciscono la tutela giurisdizionale dei diritti, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la obbligatorietà dell’azione penale, l’autonomia e indipendenza della magistratura, esprimono valori fondanti della nostra comunità nazionale e come tali sono proclamati dalla nostra Carta costituzionale.
Non spetta a noi fornire risposte ai quesiti sollevati. Quel che è certo è che sui temi della giustizia il metodo del confronto non è stato concretamente attivato. Per lo meno non con l’ANM.
Lo dimostra quanto è accaduto a proposito del disegno di legge governativo concernente la riforma del sistema elettorale.per l’elezione dei componenti togati del CSM.
Il disegno di legge in questione è stato sensibilmente modificato nei suoi contenuti essenziali per effetto di numerosi emendamenti, alcuni dei quali dichiarati “irrinunciabili”, che hanno introdotto rilevantissime e impreviste novità riguardanti la costituzione e il funzionamento dell’organo di autogoverno, sicché in definitiva il testo licenziato dal Senato risulta sostanzialmente diverso da quello inizialmente sottoposto al CSM per il parere e sul quale per mesi l’ANM si è inutilmente confrontata.
Ed è significativo il fatto che la votazione in Commissione Giustizia ha avuto inizio qualche ora dopo la conclusione dell’audizione dell’ANM, quasi a sottolineare che si trattava di un mero atto di cortesia, privo di qualsivoglia incidenza sui temi in discussione.
Se dalle questioni di metodo si passa a quelle di contenuto, non è difficile rintracciare le fila di un disegno di burocratizzazione e di compressione del ruolo dell’organo di governo autonomo della magistratura, realizzato anche attraverso la riduzione del numero complessivo dei suoi componenti da trenta a ventuno.
E’ sinceramente difficile, infatti, credere a quanti affermano che la prevista riduzione dei componenti determinerà addirittura un recupero della capacità operativa e della efficienza di quest’organo e non invece, come noi riteniamo, un grave deficit di funzionalità.
La riduzione del numero dei componenti non potrebbe giustificarsi neppure ipotizzando un eventuale, futuro decentramento di funzioni, mediante l’attribuzione di più ampi compiti ai Consigli giudiziari. Un tale intervento, infatti, incontrerebbe pur sempre il limite dell’art. 105 Cost. che riserva tutti i provvedimenti in materia di “status” dei magistrati al Consiglio Superiore della Magistratura.
C’è un altro aspetto della riforma che merita in questa sede di essere affrontato con grande franchezza e riguarda l’abolizione delle liste espressamente introdotta per combattere le correnti presenti all’interno dell’ANM..
A leggere gli atti del recente dibattito parlamentare sulla riforma del CSM, sembrerebbe che l’associazionismo giudiziario sia né più né che un demone, che mina la credibilità dell’autogoverno della magistratura italiana. Ma questo giudizio presupporrebbe che si potesse dimostrare che in una società autenticamente liberale, il pluralismo delle “formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’uomo” (perché questo sono le correnti) sia incompatibile con la democrazia.
Ed in realtà, quando si legge che il “pluralismo culturale” spetta solo alle assemblee elettive proviamo grande imbarazzo e ci permettiamo di ricordare che la regola aurea di ogni democrazia è non solo il contemperamento dei poteri, ma anche l’articolazione della democrazia.
Nel merito, è opportuno ricordare che, in questi anni, i gruppi associativi non hanno solo organizzato il consenso ( che peraltro è compito, fino a prova contraria, più che legittimo), ma hanno innanzitutto contribuito a dare risposta al quesito cruciale – e per nulla affatto solo italiano – di come le grandi trasformazioni delle società contemporanee modifichino il ruolo della magistratura, di come si possa governare razionalmente la discrezionalità del giudice.
Nel convincimento che – come dicono i costituzionalisti anglosassoni – il massimo fulgore del diritto si manifesta quando esso impone restrizioni simultanee alla discrezionalità legislativa, amministrativa e giudiziaria.
Forse non tutti sanno che noi magistrati in questi anni ci siamo divisi ed uniti su problemi corposi e reali come il ruolo dell’interpretazione, il rapporto fra leggi e indirizzo costituzionale, la pari dignità delle funzioni, la deontologia del quotidiano, pervenendo a momenti di sintesi che rappresentano ormai patrimonio comune di tutti i magistrati.
E’ per questo che riteniamo che il pluralismo associativo sia a tutt’oggi una ricchezza e una risorsa e non il “male” della magistratura italiana.
E ci chiediamo, quindi, dove porti una riforma che non servirà certo a cancellare le correnti, ma ne renderà meno chiari e decifrabili i progetti e le proposte, deprimendo, al tempo stesso, quello che è il canone di ogni rappresentanza e cioè la sua diffusività, anche territoriale.
Prima di chiudere, due temi ancora meritano la nostra attenzione: l’individuazione di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e la delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario.
Di recente è stata prospettata la possibilità di introdurre nel nostro ordinamento un meccanismo che muovendo dalle priorità di intervento segnalate dai Procuratori della Repubblica e dai Procuratori generali presso le singole Corti d’Appello, consenta al Ministro della Giustizia, d’intesa con il Ministro dell’Interno e del Tesoro, di individuare i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale da sottoporre all’approvazione del Parlamento e ai quali i magistrati degli uffici requirenti dovrebbero poi attenersi. Uso il condizionale – dovrebbero attenersi – perché ancora non è chiaro, forse neppure agli stessi proponenti, se si tratti di criteri vincolanti oppure no.
Ed è questione di non poco momento, dalla quale dipende non solo la concreta prospettiva di sanzionare le eventuali violazioni, ma soprattutto la praticabilità della stessa iniziativa, vale a dire la misura della sua compatibilità con l’irrinunciabile precetto costituzionale dell’art. 112 Cost. che costituisce uno dei pilastri portanti dell’ impianto costituzionale della “democrazia di eguali”.
Peraltro deve escludersi che la modifica del principio di obbligatorietà dell’azione penale costituisca una sorta di “conditio sine qua non” per la piena esecuzione degli accordi assunti in sede europea con il trattato di cooperazione internazionale sul c.d. “mandato di arresto obbligatorio”, vuoi perché nessun organismo comunitario ha mai richiesto al nostro Paese di modificare il principio di obbligatorietà della azione penale, vuoi perché la asserita necessità di uniformare il nostro ordinamento a quello degli altri Paesi non è in concreto attuabile, in quanto non esiste un modello di ordinamento giudiziario unico per tutti i Paesi dell’Unione Europea.
Se si vogliono correggere le disfunzioni che impediscono la piena esplicazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, la strada da percorrere, a nostro avviso, è quella della riduzione dell’area del penalmente rilevante e della conseguente realizzazione del diritto penale minimo, della introduzione di nuovi strumenti deflattivi e del potenziamento di quelli esistenti nonché della c.d. riserva di codice, per impedire la espansione incontrollata del diritto penale speciale.
Per quanto concerne infine la delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario, sono da condividere la previsione della temporaneità degli incarichi direttivi, della tipizzazione degli illeciti disciplinari e della rideterminazione delle circoscrizioni giudiziarie, costituenti da sempre istanze della magistratura associata che trovano finalmente accoglimento. Vivissima preoccupazione destano invece le disposizioni concernenti l’istituzione della Scuola della Magistratura e la riforma dei Consigli giudiziari.
La Scuola verrebbe istituita, organizzata e gestita presso il Ministero della Giustizia e sarebbe retta da un comitato direttivo i cui membri verrebbero nominati congiuntamente dal Ministero della Giustizia e dal Consiglio Superiore della Magistratura. Servirebbe per la formazione e il tirocinio degli uditori giudiziari e per l’organizzazione dei corsi di aggiornamento permanente.
La Scuola, al termine dei corsi di aggiornamento, rilascerebbe una “valutazione sull’attività svolta dai partecipanti” e la valutazione positiva dovrebbe costituire, cito testualmente, “elemento di valutazione per la progressione in carriera dei magistrati, nonché per i tramutamenti, per i conferimenti di incarichi direttivi e semidirettivi”.E appena il caso di notare come il CSM venga del tutto esautorato, perfino da compiti di collaborazione nella programmazione e gestione dell’attività didattica.
Una scuola così congegnata non può incontrare il nostro favore. L’ANM. da tempo sostiene che la carriera del magistrato deve soggiacere a serie verifiche di professionalità, ma ritiene altresì che la formazione professionale è attività che si svolge in stretta connessione con il valore dell’indipendenza della magistratura, cosicché ad essa deve considerarsi preposto, in una corretta visione costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura.
La Scuola immaginata dalla delega introduce un surrettizio quanto inammissibile controllo politico della carriera dei magistrati, dall’uditorato al pensionamento, attribuendo al Ministro compiti che la costituzione non gli assegna.
E’ una mia considerazione personale, non avendo ancora l’ANM espresso sul punto una valutazione collegiale. E tuttavia credo di non essere molto lontano dal vero.
Sui Consigli giudiziari avremo tempo di ritornare, ma occorre preliminarmente sapere se anche questa riforma rientri tra quelle che si intendono varare a costituzione invariata, e a quale imperscrutabile finalità possa rispondere la configurazione di un organo periferico dell’ autogoverno composto da tre magistrati elettivi e quattro componenti laici, due dei quali eletti dai Consigli Regionali. A noi questa composizione non piace, e anche in questo caso le ragioni sono abbastanza intuibili.
Su tutte le questioni il confronto è opportuno ed anzi, per noi, addirittura necessario.
Ma occorre, prima di ogni cosa, ristabilire attorno alla magistratura tutta un rinnovato clima di fiducia e di rispetto. Per parte nostra, Signor Presidente, faremo di tutto per essere sempre degni del compito che la Costituzione ci assegna e meritevoli della fiducia Sua e del popolo italiano.
Dott. Giuseppe Gennaro