Il Consiglio di Stato su Google Ads: non è hosting provider passivo, ma attivo

Le piattaforme digitali sono luoghi virtuali in cui possono essere immessi contenuti da parte di inserzionisti che perseguono interessi economici e non.

Esse sono gestite dai cd. hosting provider, ossia coloro i quali garantiscono a professionisti, aziende e individui la tecnologia necessaria per far sì che i propri siti e pagine web siano visibili su internet.

Gli hosting provider, in altri termini, sono i proprietari della piattaforma digitale e in quanto tali possono essere ritenuti responsabili se i contenuti pubblicati sulle loro piattaforme violano disposizioni di legge poste a tutela di interessi pubblici.

A tal proposito, va richiamata la disposizione di cui all’art. 14, comma 1, della direttiva sul commercio elettronico (direttiva 2000/31/CE), che ha introdotto un’esenzione da responsabilità – in relazione ai contenuti memorizzati da terzi sulla rete – per i fornitori di servizi di hosting che non siano a conoscenza delle attività illecite che avvengono tramite i propri servizi ed a condizione che, avutane conoscenza, agiscano immediatamente per rimuovere i contenuti illeciti.

La giurisprudenza europea e nazionale ritiene che tale regime favorevole di responsabilità trovi applicazione solo per gli cd. hosting provider passivi e non per quelli qualificabili come attivi.

I primi sono gli operatori che svolgono attività meramente automatiche, i quali pertanto non possono essere a conoscenza dell’eventuale illiceità dei contenuti immessi sulla rete.                                             

Al contrario, l’hosting provider attivo è colui che compie “attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio”.

Con sentenza 4277/2024, il Consiglio di Stato è intervenuto proprio in materia di responsabilità degli hosting provider, confermando una sanzione irrogata da AGCOM a Google Ireland Limited.

Nel caso concreto, l’azienda era stata colpita da sanzione amministrativa per violazione del divieto previsto all’art. 9 D.L. 87/2018, il quale prevede che “e’ vietata qualsiasi forma di pubblicita’, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e internet. Dal 1° gennaio 2019 il divieto di cui al presente comma si applica anche alle sponsorizzazioni di eventi, attivita’, manifestazioni, programmi, prodotti o servizi e a tutte le altre forme di comunicazione di contenuto promozionale, comprese le citazioni visive e acustiche e la sovraimpressione del nome, marchio, simboli, attivita’ o prodotti la cui pubblicita’, ai sensi del presente articolo, e’ vietata.

In particolare, AGCOM, nell’espletare la sua attività di verifica del rispetto del divieto di pubblicità di giochi o scommesse con vincite in denaro, aveva rilevato che alla pagina di ricerca www.google.com, digitando la parola chiave “casino online”, nella lista rimandata dal motore di ricerca appariva in testa il sito – qualificato come “annuncio” – https://sublime-casino.com, così descritto brevemente “Unisciti Ora Al Nuovissimo Casinò Online Italiano. Gioca Subito A Oltre 400 Giochi – Iscriviti Ora E Registrati In Meno Di 30 Secondi! Nessun download.Sicuro e Protetto”

Google Ireland, dal canto suo, aveva invocato l’applicazione dell’art. 16, D.lgs. 70/2003, di recepimento della predetta Direttiva 2000/31/CE, ritenendo che la violazione non potesse essergli addebitata per via dell’attività meramente strumentale svolta e dell’impossibilità di verificare il contenuto di ogni inserzione immessa in rete dai privati.

Il Consiglio di Stato non ha condiviso la ricostruzione proposta dall’azienda e accolta dal giudice di prime cure; il Collegio ha rilevato che nel caso concreto Google non aveva operato attraverso il tradizionale motore di ricerca, bensì attraverso il servizio “Google Ads”, tramite il quale è stato pubblicato l’annuncio oggetto di contestazione; si tratta di un servizio di posizionamento pubblicitario online che consente agli operatori economici di pubblicare “link sponsorizzati” verso determinati siti (cosiddetti “siti di destinazione”) associati a determinate parole o chiavi di ricerca, che Google deduce essere scelte dall’inserzionista.

In questo caso, dunque, l’azienda ha svolto un ruolo attivo nella pubblicizzazione di determinati contenuti vietati, perdendo la posizione di neutralità, in quanto essa stessa nutriva un interesse economico alla buona riuscita dell’operazione promozionale (gli inserzionisti remunerano il servizio in modo proporzionale rispetto alle effettive visualizzazioni che il messaggio pubblicitario riceve).

Peraltro – dal punto dei vista dei presupposti oggettivi di applicazione del regime favorevole di responsabilità – occorre precisare che la Direttiva 2000/31/CE esclude testualmente dal proprio ambito di applicazione (art. 1, comma 5) “i giochi d’azzardo che implicano una posta pecuniaria in giochi di fortuna, comprese le lotterie e le scommesse” , vietando non solo le attività aventi ad oggetto scommesse e giochi d’azzardo, ma anche la pubblicizzazione dei giochi medesimi.
Nella stessa direzione si è mosso il d.lgs. 70/2003 che non ha inteso estendere l’ambito di applicazione della disciplina di favore.

Una volta esclusa l’operatività della disciplina nazionale di favore, il Collegio è passato a verificare la sussistenza degli elementi tipici della condotta vietata dall’art. 9 D.L. 87/2018.

In particolare, non sussistendo dubbi sul fatto che sia stata integrata la condotta tipica, il Collegio ha ritenuto di dover verificare la presenza dell’elemento soggettivo.

È bene precisare che nel caso in cui l’autore di una condotta illecita sia una persona giuridica, l’elemento soggettivo assume una connotazione più normativa che prettamente psichica; ciò significa che l’indagine del giudice si concentrerà sull’esigibilità della condotta lecita.

Nel caso concreto, il Consiglio di Stato ha ritenuto che per l’azienda non fosse impossibile (e, dunque, non fosse inesigibile) verificare la natura dei contenuti immessi in rete, considerando il coinvolgimento attivo nel posizionamento di specifici contenuti qualificati come “annunci”.

Il Consiglio di Stato, in controtendenza con la giurisprudenza degli ultimi vent’anni, ha stabilito che imprese di notevoli dimensioni come Google sono tenute a dotarsi di un sistema interno di controllo atto a prevenire la violazione di normative nazionali tese a garantire interessi di pubblica rilevanza. I grandi protagonisti del settore digitale non possono andare esenti da responsabilità (civile o, come nel caso in analisi, amministrativa) per il sol fatto di gestire piattaforme di dimensione mondiale, anzi, proprio in virtù del fattore dimensionale, sono chiamate a mettere in campo meccanismi interni, anche basati su sistemi di intelligenza artificiale, idonei a prevenire violazioni.

Redazione

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