CdS: quando l’accesso civico diviene abuso del diritto

L'abuso del diritto ha la funzione di fungere da argine all’esercizio formalmente ineccepibile, ma sostanzialmente distorto, della situazione di vantaggio di cui taluno sia titolare

Il divieto di abuso del diritto è una figura trasversale all’interno del nostro ordinamento giuridico, costituendo un limite di ragionevolezza all’esercizio dei diritti individuali e collettivi.

Con sentenza n. 9470/2024, la quarta sezione del Consiglio di Stato è intervenuta in materia di abuso del diritto di accesso civico.

Nel caso concreto, un’impresa aveva avanzato nei confronti di una società in house una istanza di accesso ampia e articolata, avendo richiesto l’ostensione di una pluralità di documenti riguardanti, peraltro, un arco temporale assai esteso.

La società in house aveva rigettato l’istanza e la legittimità di tale provvedimento di diniego aveva trovato conferma in primo grado dinanzi il T.A.R..

Interpellato in secondo grado, il Consiglio di Stato ha confermato la pronuncia del giudice di prime cure, ricordando che l’Adunanza Plenaria 10/2020 “ha evidenziato come l’eventuale abuso che dovesse essere commesso mediante la presentazione delle istanze di accesso civico costituisca un limite invalicabile al loro accoglimento.”.

Seppur tale principio di diritto sia stato affermato con riferimento al diritto di accesso documentale, Il Collegio ha ritenuto che si trattasse dell’applicazione di una categoria generale che riguarda l’esercizio di qualsiasi diritto soggettivo.

Difatti, ha rilevato il Consiglio di Stato, sebbene il divieto dell’abuso del diritto sia nato per regolare i rapporti civilistici, esso riguarda l’esercizio di qualsiasi posizione giuridica soggettiva in maniera sproporzionata, irragionevole e, in sostanza, in contrasto con il superiore principio di solidarietà sociale sancito all’articolo 2 della Carta fondamentale.

Per queste ragioni, il Collegio ha stabilito che “La sentenza va pertanto confermata, quando afferma che la «domanda di accesso […] può certamente definirsi massiva», ritenendo che l’istanza formulata dall’impresa appellante fosse eccessivamente generica quanto al numero di atti di cui è stata chiesta ostensione.
Riportiamo, di seguito, la parte essenziale della sentenza (presidente Vincenzo Neri, estensore Michele Conforti) sul punto:

“L’abuso del diritto pur teorizzato ed applicato, in principio, nell’ambito dei rapporti tra privati, costituisce una figura trasversale nell’ordinamento (ex plurimis, nell’ambito del diritto civile: Cass. civ., Sez. III, 18 settembre 2009 n. 20106; nell’ambito del diritto commerciale: Cass. civ., Sez. unite, ord., 30 gennaio 2023 n. 2767; nell’ambito del diritto tributario Cass. civ., Sez. unite, 23 dicembre 2008 n. 30055, 30056 e 30057; nel processo penale Cass. pen., Sez. Unite, 29 settembre 2011, n. 155; nel processo civile: Cass. civ., Sez. Unite, 16 febbraio 2017, n. 4090 e 15 novembre 2007 n. 23726; nel processo amministrativo: Cons. Stato, Ad. plen. 29 novembre 2021 n. 19; Sez. V, 6 settembre 2024, n. 7457), nel quale ha assunto la funzione di fungere da argine all’esercizio “formalmente ineccepibile” e “sostanzialmente distorto” della situazione di vantaggio di cui taluno è titolare.

Seguendo le coordinate teoriche delineate nel tempo dalla giurisprudenza, l’abuso del diritto costituisce una particolare declinazione del principio di buona fede, il quale, a sua volta, è attuazione del principio fondamentale di solidarietà politica, economica e sociale enunciato dall’art. 2 Cost. (Cons. Stato, Sez. IV, 05 settembre 2024, n. 7435; Sez. IV, 20 giugno 2024, n. 5514; Cass. civ., Sez. III, ord., 07 giugno 2024, n. 16024; Sez. III 14 giugno 2021 n. 16743), che impone a ciascun consociato, nel rispetto di questo dovere di solidarietà, di non “piegare” l’ordinamento al perseguimento di pretese che, considerate oggettivamente (cioè secondo una valutazione socialmente tipica di tipo oggettivo e senza cioè tenere conto dei motivi e dei nessi psichici che orientano chi agisce), in relazione alla vicenda in cui esse si esprimono, risultino sproporzionate, irragionevoli, emulative, prevaricatrici o ingiuste.

L’istituto sortisce dunque l’effetto di correggere (o, in alcuni casi di impedire) l’applicazione dello strictum jus, temperando il principio secondo cui qui iure suo utitur neminem laedit ed evitando che possano trovare giuridico riconoscimento (ad es., Cass. civ., Sez. unite, 23 aprile 2020 n. 8094, §. 9.6., in materia di inesigibilità del credito nel rapporto obbligatorio), nel processo o al di fuori di esso, pretese assiologicamente non giustificate, azionate o esercitate facendosi scudo di una qualche norma giuridica, di cui colui che agisce pretende di fare applicazione rigidamente, basandosi esclusivamente sull’interpretazione letterale della disposizione e senza rapportarla agli altri limiti (o alle altre situazioni di vantaggio) emergenti dall’ordinamento e, anzi, agendo in (aperto o celato) contrasto con gli ulteriori principi di ordine sistematico da questo emergenti e, in particolare, con il richiamato principio inderogabile di solidarietà”.

Redazione

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