Qualche tempo fa ci siamo occupati della sentenza resa dal T.A.R. Friuli-Venezia Giulia sul ricorso promosso da una società per ottenere l’accesso alla petizione avanzata da circa 22.000 cittadini avverso il progetto di un’acciaieria presentato dalla società ricorrente.
L’accesso era stato richiesto dalla ricorrente per desumere dalla petizione le identità dei firmatari e, quindi, riservarsi di agire contro di essi qualora la petizione avesse avuto effetti sui procedimenti amministrativi relativi all’acciaieria.
Il T.A.R. aveva accolto il ricorso; la sentenza era stata appellata da alcuni organizzatori della raccolta delle firme e il Consiglio di Stato ha sospeso la sentenza.
Con sentenza n. 2922 del 4 aprile scorso l’appello è stato accolto.
La decisione è di grande importanza perché rimette in gioco il confronto tra diritto di accesso (caposaldo della trasparenza dell’azione amministrativa) e garanzia sostanziale dell’esercizio delle libertà politiche. È evidente che tale esercizio sarebbe messo in discussione se una grande società per azioni potesse agire contro qualcuno dei singoli cittadini sottoscrittori, magari in modo temerario ma intanto mettendoli in pericolo di pesantissime ripercussioni economiche.
Il Consiglio di Stato ha intanto riconosciuto agli appellanti la qualità di titolari del trattamento dei dati, come definita dall’art. 4, n. 2, del General Data Protection Regulation (GDRP) cioè del regolamento UE n. 2016/679.
Infatti loro sono stati promotori della raccolta delle firme della petizione popolare e quindi soggetti alla gestione dei dati così raccolti.
In relazione alla loro qualità di titolari del trattamento, la sentenza ha verificato la legittimazione all’appello, prescindendo cioè dalla tutela della personale riservatezza degli appellanti.
La sentenza del T.A.R. Friuli-Venezia Giulia aveva accolto il ricorso per l’accesso perché aveva ritenuto che chi sottoscrive una petizione assume una posizione pubblica, anzi ha lo scopo che la sua richiesta sia dibattuta quindi accetta che il suo nome sia reso altrettanto pubblico.
Il Consiglio di Stato ha preliminarmente ritenuto che la petizione contiene dati idonei a rivelare le opinioni politiche dei sottoscrittori quindi rientra nel novero di quei dati di cui l’art. 9 GDPR vieta in linea di principio il trattamento, come dati “particolari” o “sensibili”.
Da ciò ha dedotto che il diritto di accesso non è – in modo generale e preliminare – prevalente rispetto a quello alla riservatezza di quei dati. Né – e qui si viene all’argomento della sentenza appellata – la semplice sottoscrizione della petizione può equivalere al consenso al trattamento dei dati sensibili, unica deroga prevista dal citato art. 9 rispetto alla protezione di tali dati.
A differenza del T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, il Consiglio di Stato ha ritenuto che: “la sottoscrizione di una pubblica petizione implica il consenso al trattamento dei propri dati personali per la specifica finalità connessa alla stessa e, quindi, implica il consenso alla trasmissione dei propri dati personali all’autorità pubblica che ne è destinataria; non implica, invece, il consenso al trattamento dei dati per altre finalità, diverse e ulteriori, e neppure equivale a rendere manifestamente pubblici i propri dati personali”.
Si arriva quindi alle prime conclusioni che: a) il diritto di accesso non “vince” sempre sulla riservatezza dei dati sensibili; b) manca il consenso preventivo al trattamento dei dati sensibili.
Da qui sorge la necessità del bilanciamento tra le contrapposte pretese cioè alla verifica che l’interesse del richiedente è di rango almeno pari a quello della persona cui si riferiscono i dati.
Tale bilanciamento è previsto sia dalla normativa sull’accesso civico (art. 5-bis d. lgs. 33/2013) sia da quella sull’accesso documentale generale (art. 22 l. 241/1990).
I dati in questione sono quelli che la giurisprudenza ha definito “supersensibili” cui spetta una tutela rafforzata.
Come avevamo accennato a suo tempo, l’interesse difensivo non è sostenibile con la semplice intenzione di valutare l’uso dei dati in un giudizio presente o futuro.
Nella sentenza in commento, il Consiglio di Stato richiama la propria giurisprudenza per la quale “l’ostensione del documento passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta a la situazione finale che l’istante intende curare o difendere” anche se la P.A. detentrice del documento non deve spingersi all’ulteriore valutazione dell’ammissibilità, dell’influenza o della decisività del documento nel giudizio.
Siccome tale bilanciamento non è stato effettuato nel procedimento di accesso, il Consiglio di Stato ha ritenuto violato il relativo obbligo.
Il coinvolgimento dei controinteressati nel giudizio sull’accesso (peraltro mediante la notifica per pubblici proclami) non equivale al loro coinvolgimento nel procedimento, nel quale “gli stessi avrebbero potuto manifestare le loro esigenze di riservatezza, senza dover palesare la loro identità (a differenza che nel presente giudizio)”.
Il risultato finale del contenzioso è che per ora l’identità dei cittadini sottoscrittori della petizione è “salva”.
Spetterà al Consiglio regionale friulano bilanciare i contrapposti e rilevanti interessi per concludere quale dei due sarà prevalente.
La dialettica è aperta e direi scabrosa ma alla fine una determinazione andrà pur sempre assunta.
Spetterà alla richiedente dimostrare in modo concreto quel nesso strumentalità tra l’iniziativa dei cittadini ed eventuali pregiudizi da essa subita che possano essere astrattamente collegati alla stessa iniziativa.