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Consiglio di Stato, III sezione
Parere del 25 settembre 2007 n. 322
(presidente Barbagallo, estensore Torsello)
OGGETTO
REGIONE TOSCANA – Società costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali. Art. 13, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, come modificato dall’art. 1, comma 720 della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Quesito
Vista la relazione della Regione Toscana del 16 gennaio 2007, pervenuta il 29 gennaio 2007, con la quale è stato chiesto il parere sul quesito in oggetto;
Vista la pronuncia interlocutoria del 13 marzo 2007;
Esaminati gli atti ed udito il relatore-estensore Cons. Mario Luigi Torsello;
PREMESSO E CONSIDERATO
1. Il Presidente della Regione Toscana ha formulato una richiesta di parere sulla corretta interpretazione dell’art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, così come modificato dall’art. 1, comma 720 della legge 27 dicembre 2006, n. 296.
Secondo il comma 1 di tale articolo “Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti. Le società che svolgono l’attività di intermediazione finanziaria prevista dal testo unico di cui al decreto legislativo I° settembre 1993, n. 385, sono escluse dal divieto di partecipazione ad altre società o enti”.
2. Ritiene l’Amministrazione riferente che l’uso della generica locuzione “costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali” apra spiragli di incertezza sulla corretta individuazione dei destinatari degli obblighi ivi previsti.
Se da un lato l’accostamento delle amministrazioni pubbliche regionali con quelle locali sembrerebbe far intendere che la norma si riferisca solo alle Regioni e agli enti locali territoriali, dall’altro, il mancato utilizzo dell’aggettivo “territoriali”, alla luce della ratio della norma in parola tesa alla riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali, nonché tenuta nella debita considerazione la normativa comunitaria in tema di tutela della concorrenza, fa propendere per un’interpretazione estensiva tesa ad assoggettare alla disciplina dell’art. 13 del cd. decreto Bersani anche le società costituite o partecipate dagli enti locali non territoriali.
Il problema – sempre secondo la Regione Toscana – non è di poco conto, dal momento che esiste sul mercato, nei vari settori merceologici, una pluralità di società costituite o partecipate da enti locali non territoriali che hanno acquisito nel tempo competenze e quote di mercato consistenti, tanto da risultare vincitrici in gare per la fornitura di beni e/o servizi alle pubbliche amministrazioni.
In definitiva l’Amministrazione regionale chiede:
a) se con la locuzione “amministrazioni pubbliche … locali”, contenuta nell’art. 13, sopra citato, il legislatore abbia inteso far riferimento a tutti gli enti locali oppure solo agli enti locali territoriali;
b) se, in subordine, le Camere di Commercio sono qualificabili come enti pubblici locali.
Con parere interlocutorio del 13 marzo 2007 la Sezione ha richiesto l’avviso del Ministero dello sviluppo economico.
Tale Ministero – Direzione generale per il commercio, le assicurazioni e i servizi – ha espresso il proprio parere con nota del 30 maggio 2007, pervenuta il 5 giugno 2007.
3. Questo Consiglio di Stato (Sez. II, 18 aprile 2007, n. 456/2007) ha già individuato quali sono i contenuti della disposizione in esame.
In particolare, le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali:
a) devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti (viene fissata, quindi, la regola dell’esclusività, in luogo di quella della prevalenza);
b) non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti;
c) sono ad oggetto sociale esclusivo.
Al riguardo è stato considerato che la disposizione mira a porre un freno all’incidenza che la composizione di tali società può comportare sull’assetto del mercato, in difesa del principio della libera concorrenzialità. Infatti detti soggetti godono di asimmetrie informative di notevoli dimensioni, in grado di alterare la par condicio con gli altri operatori agenti nello stesso mercato e di eludere sostanzialmente il rischio d’impresa (Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, 9/5/2007, n. 135).
4. Orbene, sono state ampiamente descritte, sia in dottrina che in giurisprudenza, le tappe che hanno portato alla nascita dell’istituto, creato dalla giurisprudenza comunitaria, dell’affidamento diretto o in house providing e cioè del modulo organizzatorio con cui la pubblica amministrazione affida l’appalto a soggetti che fanno parte dell’amministrazione medesima, senza ricorrere al libero mercato. E ciò a partire dal Libro bianco della Commissione europea del 1998, alle cause Arnhem e RI.SAN (Corte di giustizia, 10 novembre 1998, BHI Holding BV c. G. Arnhem e G Rheden, causa C-306/96; Corte di giustizia, 9 settembre 1999, RI.SAN Srl contro Comune di Ischia, causa C-108/98), alla sentenza Teckal (Corte di giustizia, 18 novembre 1999, Teckal S.r.l. c. Comune di Aviano, causa C-197/98) e via di seguito.
E’ noto anche che tale figura organizzatoria ha suscitato e suscita tuttora numerose perplessità, per il possibile contrasto con i principi comunitari di divieto di discriminazione, di libera prestazione dei servizi pubblici e di libera concorrenza.
Per queste ragioni, le misure che ha adottato l’Unione europea si indirizzano, sostanzialmente, su due strade: “da un lato assimilare quanto più possibile l’impresa assegnataria alla medesima amministrazione appaltatrice; dall’altro non introdurre nell’ambito del mercato privato l’elemento di disturbo costituito da tale tipo di impresa.
Al primo obiettivo corrispondono i principi ….del “controllo analogo”; al secondo, il principio della “attività prevalente”, vale a dire della tendenziale esclusività della attività economica a favore dell’azionista: l’impresa pubblica non può in nessun modo inserirsi nel mercato privato nel quale costituirebbe un elemento di disturbo e pericolo” (CGARS, 4 settembre 2007, n. 719).
Con riferimento a tale ultimo requisito, la sentenza appena citata, dopo ampia disamina, definisce il punto di attuale approdo della complessa tematica, rilevando che l’esercizio diretto deve essere caratterizzato dalla quasi esclusività, quantitativa e qualitativa, delle attività svolte dall’impresa nei confronti dell’Ente controllante e “che il cammino della giurisprudenza della Corte Europea, che ha sempre più ristretto il concetto espresso da quella espressione “parte più importante”, lascia prevedere che il traguardo definitivo della totale esclusività sia assai prossimo. Si parte infatti dalla espressione “parte più importante” della sentenza Teckal, redatta in lingua italiana, e Stadt Halle, redatta in lingua tedesca, alla complessa motivazione della sentenza Parken Brixen …., alla espressione “sostanzialmente destinata in via esclusiva all’ente locale in questione”, sentenza Carbotermo, C340/04 del 11 maggio 2006, punto 62,….., anch’essa redatta in lingua italiana.”.
5. Tale è quindi lo scenario nel quale si colloca la disposizione contenuta nell’art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223/2006, di cui al quesito della Regione Toscana, come si desume anche dall’intervento del relatore in Commissione V per l’Aula (AS 741): “La finalità dell’intervento, …, è quella di porre rigidi paletti all’appalto «in house» allo scopo di eliminare le alterazioni e distorsioni della concorrenza che questo strumento ha determinato negli ultimi anni, a tutela della parità degli operatori sul mercato, ma anche – e soprattutto – dell’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni.
Esso è in linea con la recente giurisprudenza della Corte di giustizia europea, che negli ultimi anni … ha ripetutamente sottolineato che la vera natura della società in house è quella di un soggetto che opera dentro la pubblica amministrazione, ed è funzionale al perseguimento di interessi generali, ben diversi da quelli industriali e commerciali. Oggi si può parlare di affidamento in house solo per quei soggetti che si configurino come vera emanazione dell’amministrazione, anche se formalmente distinti, e siano privi di qualsiasi autonomia contrattuale e gestionale nei confronti dell’amministrazione di cui sono emanazione.”.
6. Occorre inoltre rilevare che la disposizione trova la propria ragione giustificatrice anche nella necessità di intervenire su un fenomeno – la proliferazione di società pubbliche o miste – che è considerato una delle cause dell’incremento della spesa pubblica da parte degli enti locali.
E difatti l’art. 13, in esame, è significativamente rubricato non solo con riferimento alla tutela della concorrenza ma anche alla “riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali”.
E ciò nell’ambito della più ampia (e complessa) tematica del contenimento e della razionalizzazione dei costi connessi in maniera diretta e indiretta all’esercizio dell’attività pubblica in genere.
In questa prospettiva, del resto, si è mosso il legislatore con la successiva legge finanziaria per il 2007 (L. n. 296 del 2006) che ha previsto:
la comunicazione dell’elenco delle società partecipate al Dipartimento della funzione pubblica (commi 587-591);
un tetto massimo per la retribuzione di qualsivoglia incarico corrisposto (anche) da società a prevalente partecipazione pubblica non quotate in borsa (comma 593);
la fusione di società partecipate dalle regioni e il ridimensionamento delle strutture organizzative (commi 721-723);
il tetto massimo al compenso del presidente e dei componenti del consiglio di amministrazione delle società interamente partecipate da comuni e province, nonché limiti nel caso di società miste;
la fissazione del numero massimo dei componenti del consiglio di amministrazione delle società partecipate totalmente dagli enti locali;
la fissazione del numero massimo di componenti del consiglio di amministrazione designati dai soci pubblici locali (commi 725-733).
7. Come si è detto, la disposizione, sotto un profilo oggettivo, non si applica ai servizi pubblici locali (secondo la formulazione conseguente alla legge di conversione).
Si deve peraltro segnalare che il disegno di legge AS 772, contenente “Delega al Governo per il riordino dei servizi pubblici locali “, all’art. 2, comma 1, lettera b), prevede il seguente principio e criterio direttivo: “consentire eccezionalmente l’affidamento a società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per l’affidamento in house” e, lettera e), “escludere la possibilità di acquisire la gestione di servizi diversi o in ambiti territoriali diversi da quello di appartenenza, per i soggetti titolari della gestione di servizi pubblici locali non affidati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nonché per le imprese partecipate da enti locali, affidatarie della gestione di servizi pubblici locali, qualora usufruiscano di forme di finanziamento pubblico diretto o indiretto, fatta eccezione per il ristoro degli oneri connessi all’assolvimento degli obblighi di servizio pubblico derivanti dalla gestione di servizi affidati secondo procedure ad evidenza pubblica, ove evidenziati da sistemi certificati di separazione contabile e gestionale;”.
8. Per completezza, si rileva che la disposizione, sotto un profilo soggettivo, non si applica alle società partecipate dallo Stato o da altri enti pubblici nazionali.
Anche per tale ragione la disposizione è stata sottoposta al giudizio della Corte costituzionale.
Al riguardo, si è osservato che tali società svolgerebbero, al livello statale, attività del tutto corrispondenti a quelle oggetto, per il livello regionale e locale, dell’art. 13 in esame (v. ricorso regione Friuli-Venezia Giulia, depositato alla Corte costituzionale il 14 ottobre 2006) e che sarebbe irragionevole perseguire la tutela della concorrenza imponendo i divieti esclusivamente alle società costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali, senza estendere le medesime proibizioni alle analoghe società costituite o partecipate dalle amministrazioni statali (v. ricorso della Regione Valle d’Aosta, depositato il 19 ottobre 2006).
9. Venendo ora allo specifico quesito sottoposto all’esame della Sezione, la Regione Toscana espone i propri dubbi sull’interpretazione della disposizione in esame, ritenendo – a quanto sembra – sostanzialmente ancora vigente la distinzione tra enti pubblici territoriali ed enti locali. Ed in questa prospettiva anche le camere di commercio e l’Unioncamere – rientrando le stesse in tale ultima categoria – dovrebbero essere assoggettate alla norma.
Lo stesso itinerario logico – seppure con esiti opposti – sembra seguire il Ministero delle attività produttive: dalla circostanza che la riforma costituzionale del 2001 avrebbe eliminato la categoria degli “altri enti locali”, l’Amministrazione desume che oggi, con l’espressione “enti locali” ci si riferisce solo agli enti territoriali, mentre gli “altri” enti locali cui si riferiva la Costituzione prima della riforma del 2001 vengono oggi inseriti nella categoria delle autonomie funzionali.
10. Tale impostazione, nei suoi stessi presupposti di fondo, non può essere condivisa.
La questione, infatti, non è se l’ordinamento riconosca ancora la categoria giuridica di “ente locale” né quali siano i tratti distintivi di tale nozione da quella di ente territoriale.
La questione è invece, su un livello diverso, quella di individuare il contenuto della locuzione “amministrazioni pubbliche locali”, cui testualmente si riferisce la disposizione in esame.
In sostanza l’enfasi del dettato normativo cade non tanto sulle caratteristiche soggettive dell’ente (ente territoriale o ente locale) ma sui contenuti e sugli ambiti di esplicazione dell’attività amministrativa (amministrazione pubblica regionale o locale). Come si evince anche dal riferimento sostanziale allo “lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza”.
E si tratta di locuzione – amministrazione pubblica locale – sia nel significato proprio delle parole che nella connessione di esse, indubbiamente ampia, di cui l’interprete deve prendere atto.
E’ possibile che a tale scelta terminologica non sia estranea la raggiunta consapevolezza della difficoltà di operare una distinzione certa degli enti locali dagli enti territoriali.
Del resto – come avvertiva uno studioso del passato – non si è mai saputo troppo bene cosa fosse un ente locale o, per lo meno, non si è mai accertato con precisione quali ne fossero i caratteri.
Con la conseguente necessità di spostare il piano di indagine – beninteso con riferimento alla fattispecie in esame – a maggiori livelli di concretezza.
11. Pare dunque al Collegio che il riferimento normativo alle “amministrazione pubbliche locali” ricomprenda le attività poste in essere dalla generalità delle amministrazioni pubbliche che perseguono il soddisfacimento di interessi pubblici locali.
In sostanza, è l’ambito spaziale – locale – dell’attività pubblica che rende operativa la norma e nulla più.
Con la conseguenza che la disposizione in esame, nella sua complessità, si riferisce a tutte le amministrazioni pubbliche che perseguono il soddisfacimento di interessi pubblici entro un dato ambito territoriale.
In concreto – e per restare alla fattispecie che ha occasionato il quesito – appare irrilevante l’ascrivibilità, riconosciuta dalla dottrina, delle Camere di commercio nell’ambito delle cd. autonomie funzionali.
Ciò che conta, ai fini della disposizione in esame, è che tale ente possa essere qualificato “amministrazione locale”.
D’altro canto – argomentum per absurdum – apparirebbe irragionevole in termini costituzionali l’assoggettamento alla nuova disciplina delle società costituite o partecipate, ad esempio, dalle amministrazioni regionali o comunali e non anche quelle che fanno riferimento alle altre amministrazioni che agiscono in ambito locale.
In altri termini, se la ragione della disposizione è quella di ridurre i costi degli apparati pubblici regionali e locali e di tutelare la concorrenza, non v’è dubbio che tale esigenza sussiste anche per le società che fanno riferimento a tutti gli enti locali diversi dagli enti territoriali.
12. Tale orientamento sembra anche confermato dai primi interventi giurisprudenziali aventi per oggetto la disposizione in esame (TAR Lombardia-Milano, 31 gennaio 2007, n. 140/2007, concernente proprio l’esclusione da una gara di una società mista il cui capitale sociale era posseduto anche dalla Camera di commercio e da Unioncamere).
13. Non c’è dubbio, quindi, che gli esiti dell’interpretazione sopra esposta conducano a definizioni di ambiti soggettivi non diversi da quelli – pur ovviamente previsti per diversi fini – di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001 (già d. lgs. n. 29/1993), con le precisazioni sopra dette.
Per quanto possa valere, si può richiamare anche il recente disegno di legge (attualmente all’esame della cd. Conferenza Unificata) recante “Misure per la riduzione dei costi politico-amministrativi e per la promozione della trasparenza”.
Muovendo dalla considerazione che il fenomeno della costituzione da parte delle amministrazioni pubbliche di società aventi oggetto sociale totalmente estraneo all’attività istituzionale dell’ente ha assunto nel corso degli anni proporzioni talmente massicce da indurre a ritenere necessaria una disciplina dei casi nei quali l’assunzione di partecipazioni non è consentita, l’art. 3 di tale disegno di legge, nel testo attuale, prevede, con talune esclusioni, che “Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di minoranza in tali società”.
Con il che si conferma la tendenza omnicomprensiva dell’ordinamento, sotto il profilo soggettivo, nella materia in esame.
14. Nell’ambito dei primi commenti della disposizione, taluni autori hanno peraltro ritenuto di dover escludere, nell’esame della stessa, l’applicazione del metodo interpretativo finalistico: per confortare un’interpretazione estensiva – si assume – non si potrà pretendere di richiamare la ratio legis dell’articolo in esame, considerata la vistosa esclusione degli imprenditori collettivi partecipati da amministrazioni statali.
In realtà le conclusioni interpretative sopra dette con difficoltà potrebbero essere ricondotte nell’ambito della cd. interpretazione estensiva, vista la lettera della disposizione che – si ribadisce – fa riferimento all’amministrazione pubblica locale e non all’ente locale.
Non si tratta, quindi, di estendere la portata della disposizione – operazione tipica della cd. interpretazione estensiva – ma di attribuire alla disposizione medesima il significato prima facie, cioè il più immediato. Restando, in tal modo, nell’ambito dell’interpretazione letterale.
In ogni caso, anche volendo riferirsi al binomio “interpretazione estensiva-interpretazione restrittiva”, la questione del metodo ermeneutico da assumere – meglio: dei suoi esiti – dovrebbe essere ribaltata.
Infatti, le considerazioni sulla genesi della disposizione di cui all’art. 13, sopra esposte, non solo danno conto dello sviluppo del dibattito sul tema ma anche esprimono un preciso canone interpretativo: l’istituto dell’affidamento diretto rappresenta un’eccezione all’applicazione della normativa sugli appalti pubblici e, pertanto, la relativa disciplina, deve essere interpretata restrittivamente (Cons. Stato, Sez. VI, n. 1514/2007; Sez. II, 18 aprile 2007, n. 456/2007).
Con la conseguenza che proprio un’interpretazione restrittiva dell’ambito di operatività soggettiva della norma si porrebbe in contrasto con l’ordinamento.
Resta, è vero, il vulnus della certa non applicabilità della disposizione alle amministrazioni dello Stato.
Ma su tale questione – come detto – è stata già chiamata a decidere la Corte costituzionale.
P.Q.M.
Nei termini su esposti è il parere.
Roma, 25 settembre 2007